E’ appena uscito un libro di Gianfelice Rocca che – con la fondatezza di chi l’industria la fa, e da più di una generazione – attira l’attenzione di tutti su una questione con cui ci si ostina non fare i conti, e che invece è sempre più decisiva per definire l’orizzonte dentro cui si deve inscrivere il futuro industriale del paese. Il punto è semplice, e ruota attorno all’idea che l’Italia abbia eccellenti possibilità di impostare un vero e proprio programma di reindustrializzazione della sua economia a partire da quello che già è. Quando si parla del nostro futuro industriale, emerge spesso l’idea che le cose che sappiamo fare non siano quelle “giuste” per competere nel mondo. E che dovremmo invece cambiare radicalmente direzione, e sforzarci (si sa che la sofferenza paga) di spostare i nostri investimenti verso le famose produzioni “ad alta tecnologia”. Il modello tradizionalmente evocato è ineluttabilmente quello americano; fondato, nelle parole di Rocca, “sull’innovazione straordinaria e sul merito straordinario”. Ma che, come conseguenza ovvia, è anche un modello che dissipa moltissime energie potenziali, perché trascura di coltivare quelle energie invece “ordinarie” che costituiscono il grosso delle risorse di qualunque sistema (e che, come che sia, dovranno pure trovare una collocazione nella società, dal momento che una società non può essere costituita tutta di geni). Quasi mai, di fronte alle grandi storie di successo che vengono da oltreoceano, ci si sofferma a pensare che quello che ci viene raccontato oggi è semplicemente quello che è risultato un caso di successo ex-post, e che nulla sappiamo di tutte le storie che sono invece sfociate in un fallimento. Come dire, non abbiamo una misura di quanto, all’interno di quel modello, quel singolo successo sia costato, in termini non soltanto di disagio sociale, ma anche semplicemente in termini di perdita economica potenziale. Da questo punto di vista vale la pena di riprendere l’osservazione di Rocca secondo cui l’elemento costitutivo del nostro modo di fare impresa è, da sempre, quello del “merito ordinario”: ossia quello che è basato sulla “intelligenza combinatoria” degli imprenditori e dei manager; e che consente innovazioni di tipo incrementale nel continuo, anziché innovazioni radicali una volta ogni tanto. Questo tipo di risorsa trova la sua espressione migliore non nell’alta o altissima tecnologia, ma nel medium tech: dove può meglio esprimersi un’organizzazione produttiva in cui quello che conta sono l’accrescimento costante delle conoscenze e l’interazione continua tra gruppi di persone che si occupano dello sviluppo delle produzioni – “seguendo” le indicazioni che vengono dalla domanda e dai suoi cambiamenti, e non aspettandosi sempre l’evento pathbreaking che ridefisce il mondo sempre e solo dal lato dell’offerta. Ora, il modello industriale orientato al medium tech basato sull’intelligenza combinatoria corrisponde esattamente a quello della Germania (o, se si vuole a quello giapponese): ossia a quelli che sono stati eletti da sempre (e ora più che mai) a benchmark di ogni valutazione in merito all’efficienza manifatturiera. Ma a guardare bene (non occorre neanche sforzarsi troppo) questo è anche il NOSTRO modello: competenze in ambito manifatturiero elevate e diffuse; un territorio intessuto di relazioni fittissime tra i diversi operatori, e tra essi e le istituzioni, ossia un grande capitale sociale; una specializzazione produttiva già ora largamente orientata verso il medium tech; una vocazione “storica” all’innovazione incrementale, che ha mostrato di essere in grado di generare posizioni di primo piano a livello mondiale; un serbatorio di saper fare, nelle mani di una generazione di risorse umane ancora attiva, senza uguali forse nel mondo. Se i modelli di sviluppo fossero delineati a partire dai fatti, e non da ideologie malamente riciclate, la “varietà di capitalismo” italiana dovrebbe essere vista in una prospettiva completamente diversa, e tanto semplice da cogliere quanto capace di sottrarre il funzionamento del sistema dal letto di Procuste dentro cui è costretto da un’idea dell’economia che vorrebbe tutto il mondo clonato in termini di un unico codice genetico.