Nel primo rilevamento dopo lo scoppio dello scandalo delle emissioni diesel alla Volkswagen, l’indice ZEW, che misura la fiducia tra analisti e investitori tedeschi, è sceso in ottobre di ben 10,2 punti rispetto a settembre, attestandosi a 1,9 (ampiamente sotto i 6 punti attesi dai mercati). Si tratta del valore minimo da un anno, molto sotto la media di lungo periodo (24,8). Peggiorano significativamente anche le valutazioni sulla situazione economica corrente (a 55,2 da 67,5).
Non hanno certamente aiutato a rinsaldare la fiducia tra gli operatori i recenti dati negativi (relativi ad agosto) sulla produzione industriale (-1,2% su luglio), sugli ordini (-2,1%) e sulle esportazioni (-5,8%), tutti peraltro fortemente influenzati dal minor numero di giorni lavorati. Inoltre, hanno pesato sul giudizio degli analisti i timori per i riflessi sulle prospettive di crescita della Germania del sensibile rallentamento delle economie emergenti.
La riduzione dei costi di produzione per il calo dei prezzi dell’energia, la maggiore competitività di prezzo per l’indebolimento dell’euro e il graduale recupero delle economie dell’Eurozona dovrebbero però limitare gli effetti negativi del calo della domanda estera; mentre i consumi, favoriti dai forti guadagni di potere d’acquisto delle famiglie e dai sensibili aumenti salariali, dovrebbero trainare quella interna.
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Il CSC rileva un incremento della produzione industriale italiana dello 0,9% in settembre su agosto, quando c’è stato un calo dello 0,5% su luglio, comunicato oggi dall’ISTAT.
Nel terzo trimestre 2015 è stimato un aumento dell’attività dello 0,7% sul precedente, il più alto da inizio 2011 e in accelerazione dal +0,4% del secondo. Rispetto al terzo trimestre
2014 si è avuto un progresso del 2,1%.
Il quarto 2015 eredita una variazione congiunturale di +0,4%.
Nei mesi autunnali la tendenza dell’attività si delinea ancora in miglioramento. Secondo i direttori degli acquisti (indagine PMI Markit) in settembre gli ordini ricevuti dalle imprese
manifatturiere hanno continuato ad aumentare, seppure a un passo più lento (indice a 53,9, per l’ottavo mese sopra la soglia neutrale di 50). Nei mesi estivi l’indice è risultato superiore al valore medio registrato in primavera (+0,3 punti, a 55,7). Tale progresso è dovuto soprattutto all’andamento della domanda interna.
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In agosto le esportazioni italiane sono diminuite del 3,2% a prezzi costanti, a causa del crollo delle vendite nei paesi extra-Ue (-7,9%), mentre sono aumentate quelle nei paesi Ue (+0,6%). Nel bimestre luglio-agosto l’export si è ridotto dell’1,7% sul secondo trimestre (+0,1% intra-Ue e -4,0% extra-Ue).
Sono diminuite anche le importazioni, riflettendo la debolezza delle esportazioni: -1,0% a prezzi costanti in agosto su luglio e -0,9% nell’ultimo bimestre. In calo ad agosto gli acquisti dall’estero in tutti i comparti, a eccezione dei beni di consumo (+1,2%): -3,8% i prodotti energetici, -1,8% quelli strumentali e -2,6% gli intermedi.
Giù, in agosto, anche le esportazioni di Germania (-5,0% a prezzi costanti) e Francia (-2,0%). Pesa la debolezza della domanda mondiale, a causa, in particolare, del rallentamento delle economie emergenti. Le prospettive per l’export italiano restano comunque positive, secondo gli indicatori qualitativi sugli ordini esteri nel manifatturiero (PMI e giudizi delle imprese), anche grazie al sostegno dell’euro debole e all’attesa normalizzazione (a bassi ritmi) degli scambi globali.
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Il Comitato Centrale del Partito Comunista cinese ha decretato che le coppie cinesi potranno avere fino a due figli, ponendo fine alla politica del figlio unico in vigore dal 1979.
Questa politica ha avuto successo nel frenare la crescita demografica in Cina, tra i paesi più popolosi al mondo (con una densità quasi tripla rispetto alla media mondiale). L’aumento della popolazione, infatti, è stato frenato dal +2,3% medio annuo nella prima metà degli anni Settanta (più della media mondiale) al +0,5% negli ultimi cinque anni (meno della metà di quello mondiale) ed era atteso diventare negativo tra dieci-quindici anni (previsioni Onu).
Ciò però costituisce un freno alla crescita del PIL e si traduce in invecchiamento della popolazione, minore quota di forza lavoro e consumi deboli. La misura dei due figli è un passo importante, anche simbolicamente, verso un modello di crescita più sostenibile ed equilibrato, fondato su domanda interna, servizi e innovazione.
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Ad Atlanta, dopo cinque anni di negoziati, è stato concluso il Trattato Transpacifico di libero commercio e investimenti (Trans-Pacific Partnership, TPP), il più grande accordo di libero scambio della storia, tra 12 economie che rappresentano il 40% del PIL mondiale e il 25% degli scambi globali (Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, Brunei, Cile, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam). L’accordo entrerà in vigore soltanto dopo la ratifica di ogni paese coinvolto. La Cina, grande esclusa da questo primo round, potrebbe aderire in un secondo momento.
Il trattato crea un’area di libero scambio tra le economie coinvolte attraverso l’eliminazione di 18mila dazi su beni e servizi e introduce, tra l’altro, misure sui diritti dei lavoratori, sulla tutela dell’ambiente e sugli arbitrati internazionali. Particolare rilevanza, dopo lo scandalo Volkswagen, assume la definizione di regole nel settore automotive sul paese d’origine delle auto e delle loro componenti, che favoriscono la creazione di una catena di fornitura transpacifica, con effetti benefici soprattutto per l’industria automobilistica giapponese.
Questo accordo è stato raggiunto grazie a un’accelerazione dei negoziati avvenuta negli ultimi dieci giorni, dopo lo scoppio dello scandalo Volkswagen. Il rischio per l’Unione europea è quello di avere un ruolo di secondo piano nella fissazione degli standard internazionali, visto che il negoziato sul Trattato Transatlantico tra Usa e Ue (Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP) è in alto mare. È auspicabile che quest’ultimo tragga spinta dall’accordo sul TPP per una più rapida conclusione.
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I dati diffusi dalla BCE (in anticipo di due settimane rispetto al comunicato ufficiale Banca d'Italia) mostrano che lo stock di prestiti bancari erogati alle imprese italiane è rimasto fermo a settembre, dopo essersi ridotto dello 0,4% al mese a luglio-agosto (dati destagionalizzati dal CSC).
Nel terzo trimestre 2015, quindi, lo stock di credito registra in media un calo dello 0,3% al mese, dopo che nella prima metà dell’anno la caduta si era sostanzialmente arrestata (-0,03% al mese; -0,4% nel 2012-2014).
Nonostante l’avvio del recupero dell’attività economica in Italia, le banche restano dunque molto prudenti nelle erogazioni. Il principale freno è costituito dall’enorme stock di prestiti deteriorati nei loro bilanci, che le ha rese avverse al rischio di credito. Può aver inciso, inoltre, la discussione in corso a livello internazionale sulla definizione di ulteriore regolamentazione per il sistema bancario (in particolare sulla composizione del passivo, in vista dell’entrata in vigore nel 2016 del bail-in, cioè del salvataggio a carico di azionisti e creditori della banca).
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Lo stock di prestiti erogati alle imprese italiane è calato in agosto dello 0,4%, dopo un’analoga flessione a luglio (dati destagionalizzati dal CSC). Nella prima metà del 2015, invece, la caduta del credito si era quasi fermata (-0,04% al mese). Rispetto al picco del settembre 2011, la riduzione dei prestiti è del 13,8% (pari a -126 miliardi).
Le banche sono ancora prudenti nell’assumere nuovo rischio di credito, perché le sofferenze nei loro bilanci continuano a salire: 142 miliardi in agosto (18,2% dei prestiti), da 141 a luglio. Il ritmo di crescita dello stock di sofferenze, comunque, si è ridotto: +0,7% al mese a luglio-agosto, da +1,2% mensile nella prima metà del 2015, grazie alle misure varate dal Governo per favorirne lo smaltimento e all’inizio del recupero dell’attività economica.
I tassi di interesse pagati dalle imprese italiane sono scesi al 2,0% in media in agosto, da 2,1% a luglio (3,5% a inizio 2014), grazie anche al QE che tiene bassi i rendimenti benchmark a medio-lungo termine. Il minor costo del credito favorirà il proseguire della risalita della domanda nei prossimi mesi.
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Prosegue in ottobre il miglioramento della fiducia di imprese e consumatori italiani e delinea una tendenza positiva di consumi e investimenti anche nel trimestre in corso.
L’indice composito di sentimento economico delle imprese è aumentato di 1,4 punti in ottobre su settembre (a 107,5), raggiungendo il valore massimo da ottobre 2007, superiore di 2,7 punti rispetto alla media del terzo trimestre. L’indicatore di fiducia è diminuito solo nelle costruzioni (-3,5 punti), dopo due robusti incrementi mensili consecutivi; particolarmente marcato l’aumento nel commercio al dettaglio (+7,4, a 116,6, massimo storico); è continuato il recupero anche nei servizi di mercato (+0,9, secondo rialzo consecutivo).
Nel manifatturiero l’indice di fiducia è salito a 105,9 (+1,5 punti, come in settembre), favorito da un incremento in tutte le componenti: attese e giudizi su ordini interni e (soprattutto) esteri e sui livelli di produzione. Il livello di ottobre è il più elevato da gennaio 2011 e superiore di 2,2 punti a quello medio del terzo trimestre. Il miglioramento è più marcato nel settore di produzione di beni di consumo.
Tra i consumatori la fiducia è aumentata per il terzo mese di fila (+3,9 punti, +9,9 da agosto) ed è al top da febbraio 2002, grazie soprattutto alla componente relativa al clima economico (+9,1 punti); il clima personale è migliorato di 0,3 punti dopo due forti incrementi di fila. Le valutazioni strettamente connesse alle decisioni di spesa sono meno favorevoli: migliorano ancora i giudizi e, in misura maggiore, le attese sulla situazione economica della famiglia; per la prima volta dopo quattro mesi peggiorano invece le valutazioni sui bilanci familiari, pur restando sui valori più elevati da quattro anni.
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Rallenta all’1,5% congiunturale (annualizzato) la crescita del PIL USA nel terzo trimestre 2015, dopo il +3,9% del secondo trimestre. La frenata è da attribuirsi quasi esclusivamente al forte contributo negativo fornito dalle scorte (-1,4%), che lascia, però, ben sperare per i prossimi trimestri, quando le imprese, per soddisfare una domanda interna in solida espansione, dovranno ripristinare un livello di scorte adeguato. Pressoché nullo è stato il contributo del settore estero, dove l’export (+1,9% dopo il +5,1% nel secondo trimestre) ha risentito delle difficoltà dei paesi emergenti e del dollaro forte.
Sono cresciuti a ritmi sostenuti i consumi, che costituiscono più di due terzi dell’economia americana (+3,2% dopo il +3,6% nel secondo trimestre), sostenuti da un’occupazione in costante aumento e dalla bassa inflazione, che ha fatto lievitare il potere d’acquisto delle famiglie. Il reddito disponibile, aumentato dell’1,2% in termini reali nel secondo trimestre, è infatti balzato del 3,5% nel terzo.
Hanno rallentato gli investimenti (+2,9% dopo un +5,2%), per il calo di quelli in strutture non residenziali (-4,0% dopo un +6,2%) legato, in particolare, alla chiusura di impianti nel settore energetico e estrattivo. Sono, invece, balzati del 5,3% quelli in macchinari (dopo il +0,3% nel secondo), anche per la necessità da parte delle imprese di sostituire macchine e attrezzature ormai obsolete.
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Negli ultimi tre anni le retribuzioni reali sono cresciute del 4,6% nel manifatturiero. L’arretramento del Paese e le maggiori tasse hanno reso poco percepiti gli aumenti. La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi storici, mentre la redditività delle imprese è ai minimi, con un impatto negativo sulla dinamica degli investimenti e sulla crescita, anche futura.
In Italia il potere d’acquisto delle buste paga è migliorato tra il 2000 e il 2014. Le retribuzioni lorde per unità di lavoro sono aumentate del 6,5% più dell’incremento dei prezzi al consumo, con una variazione media annua dello 0,5%. Nel solo manifatturiero sono salite del 17,6% reale, +1,2% annuo. Incrementi ben superiori a quelli registrati dalla produttività.
L’ultima tornata contrattuale ha determinando nel settore manifatturiero una crescita delle retribuzioni reali pari al 4,6% nel triennio 2013-15, essendosi basata su previsioni di inflazione che si sono rivelate molto più alte di quella effettiva. A regime l’extra-costo annuo per le imprese è di 4,1 miliardi e comporta una netta riduzione della competitività, che indebolisce i bilanci aziendali e abbassa il PIL e l’occupazione. Secondo le regole stabilite dai contratti stessi, lo scostamento tra inflazione prevista e inflazione effettiva andrebbe recuperato. Questo è un nodo che i prossimi rinnovi devono affrontare. In futuro le dinamiche retributive andranno maggiormente legate alla produttività.
Dagli inizi degli anni Duemila il sostenuto andamento delle retribuzioni ha spinto in alto la quota del valore aggiunto che va al lavoro, tanto che essa è tornata ai picchi storici di metà anni Settanta. Nel manifatturiero è arrivata al 74,3% nel 2014 (74,2% nel 1975).
Ciò ha causato una forte erosione dei margini di profitto che scoraggia gli investimenti, il cui minor livello indebolisce la crescita, anche futura. Questa erosione è in controtendenza con l’aumento dei profitti avvenuto in quasi tutti i maggiori paesi avanzati e smentisce l’opinione diffusa secondo cui in Italia i lavoratori sono stati sfavoriti a vantaggio del reddito di impresa.
La questione salariale, cioè una dinamica delle retribuzioni ritenuta insoddisfacente, va ricondotta all’arretramento del reddito prodotto dal Paese e alle maggiori tasse. Non c’è stata, infatti, alcuna penalizzazione del fattore lavoro, che anzi è uscito rafforzato nella distribuzione del valore aggiunto. Il reddito da lavoro è l’unico ad aver tenuto durante la crisi, mentre tutte le altre forme di guadagno hanno subito pesanti diminuzioni.
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