Una recente analisi svolta dal CSC [ripresa anche in Scenari Economici del dicembre scorso (n. 17)] mostra che nel confronto diretto con la Germania l’Italia si caratterizza per una diversa collocazione all’interno delle catene internazionali del valore, che la vede maggiormente orientata “verso monte”.
A questo riguardo si può osservare che la posizione relativa dell’Italia riflette direttamente le caratteristiche del suo “secondo” modello di industrializzazione. Il ridimensionamento del grado di integrazione verticale del sistema – a partire dalla metà degli anni 70 – ha infatti determinato una progressiva espansione dei mercati intermedi, che ha a sua volta comportato un aumento strutturale degli scambi di mercato tra le imprese. Detto in altri termini, una quota ormai molto elevata di imprese italiane della trasformazione è costituita da tempo da produttori di input intermedi – che, estendendo nel frattempo la loro area di mercato, sono diventati fornitori anche sui mercati internazionali.
La de-verticalizzazione – che ha assunto in Italia speciale intensità, ma ha comunque investito negli stessi tempi anche la maggior parte degli altri grandi paesi industriali – è stata inizialmente quasi assente in Germania, per poi emergere rapidamente dopo la c.d. “caduta del muro”, quando è divenuto possibile includere le economie dell’Est Europa – che disponevano di una precedente knowledge manifatturiera e offrivano enormi differenziali negativi di costo – in una rete strutturata di scambi. In questo modo l’avvio di un processo di outsourcing (non necessariamente sostitutivo della produzione già realizzata, ma ampiamente aggiuntivo o se si vuole “integrativo”) ha coinciso per la Germania con quello dell’offshoring : mantenendo in patria le imprese collocate a valle delle catene del valore e dislocando i mercati intermedi direttamente all’estero.
Questo fenomeno, che ha verosimilmente implicazioni tutt’altro che trascurabili sulla stessa produttività, è stato caratterizzato da una velocità addirittura superiore a quella, già alta, con cui si era realizzato – su basi nazionali – in Italia. Nel primo caso si era infatti trattato di trasferire la produzione dalla (grande) impresa verticalmente integrata a quella (piccola e nuova) che se ne caricava pro-quota sulle spalle l’onere produttivo (ossia di modificare l’intera organizzazione della produzione); mentre nel secondo è stato sufficiente attivare una domanda intermedia da parte di produttori (assemblatori) tedeschi già presenti sul mercato, avvalendosi di un capitale di know how già ampiamente disponibile all’estero.
E’ in questo senso che la Polonia e gli altri paesi dell’Est (economie di “fornitori”) competono oggi direttamente – con costi di produzione non paragonabili – con l’Italia, e non con la Germania.
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Annuncio tapering: le conseguenze sulle valute degli emergenti un mese e mezzo dopo
Il 18 dicembre 2013 la FED ha annunciato la prima riduzione degli stimoli monetari. A fine gennaio 2014, un mese e mezzo dopo, le valute che hanno perso meno valore in seguito a tale annuncio, sono due di quelle che più avevano risentito del discorso di Bernanke a maggio 2013 che preludeva al tapering stesso, cioè la rupia indiana e la rupia indonesiana: il loro deprezzamento è nell'ordine dell'1%. In Indonesia gli investimenti diretti, meno soggetti alle turbolenze dei mercati finanziari dato il loro carattere di investimento di medio-lungo termine, contano nel finanziamento del deficit di parte corrente proporzionalmente di più degli investimenti di portafoglio, più volatili, rispetto ad altri paesi emergenti.
Real brasiliano, peso cileno, peso messicano e zloty polacco hanno perso tra il 3% e il 5% del valore. Forint ungherese, rublo russo e rand sudafricano hanno perso tra il 6% e il 7%.
Le due valute più colpite sono le stesse che hanno creato la più recente turbolenza a fine gennaio sui mercati finanziari. La lira turca ha perso l'11%, avendo toccato un picco di deprezzamento del 15% corrispondente al cambio record di 2,39 lire contro 1 dollaro in conseguenza del quale la Banca centrale ha dovuto più che raddoppiare il tasso di riferimento e aumentare di 425 punti base il tasso di rifinanziamento overnight. Il deficit di parte corrente turco è finanziato in proporzione maggiore, rispetto ad altri paesi emergenti, da investimenti di portafoglio e in misura minore da investimenti diretti. Il peso argentino ha perso circa il 30% del proprio valore, avendo toccato un picco del 34% il 23 gennaio quando la Banca centrale, viste le proprie riserve valutarie ridursi a circa 24 miliardi di dollari dopo mesi di difesa del cambio, ha annuciato che non difenderà più il peso.
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A due mesi di distanza dal seminario di Scenari economici di dicembre le previsioni del CSC sui paesi emergenti, che scontavano i rischi di nuove turbolenze finanziarie e potevano sembrare eccessivamente conservative, rimangono realistiche e quelle dei principali istituti di previsione si stanno poco a poco abbassando. Le tensioni sugli emergenti, che qualche economista considera la terza fase della Grande recessione, sono state il tema dominante dei principali consessi internazionali di gennaio e febbraio (WEF e G20). Se la scintilla è stato il tapering della Fed, la riduzione degli acquisti di titoli all'interno del programma di quantitative easing dell'autorità monetaria USA, l'FMI ritiene che sia «difficile individuare una causa predominante» che accomuni le esperienze di difficoltà recenti dei paesi emergenti. Ognuna di queste economie ha le sue specifiche vulnerabilità, legate a debolezze strutturali o a errori e lentezze nelle politiche di riforma: l'alta inflazione e i deficit commerciali in Brasile, Indonesia, Turchia e Sudafrica, le tensioni nel settore bancario ombra (shadow banking), il rallentamento congiunturale e la volontà della BC di combattere la speculazione sul tasso di cambio e di rendere il renmimbi al più presto una valuta pienamente convertibile in Cina, le turbolenze politiche in Tailandia, Turchia, Venezuela e Ucraina (e Russia), il deprezzamento in Argentina sono fattori di vulnerabilità diversi tra loro. Il tapering ha comunque contribuito a esacerbare ovunque la situazione. In Brasile, India, Turchia, Sudafrica, Russia le autorità monetarie hanno risposto alle tensioni sui mercati dei cambi e dei capitali con restrizioni monetarie che mettono in pericolo il ritmo di crescita futura, soprattutto se non vengono messe in atto quelle riforme strutturali che OCSE e FMI richiedono da tempo. Lo scenario più probabile è che la maggior parte dei mercati degli emergenti più importanti, Cina compresa, vivranno un rallentamento transitorio della crescita, e tassi di crescita più alti torneranno nel corso del 2014 e 2015. Il vero rischio al ribasso è rappresentato, più che dalle turbolenze finanziarie legate al proseguimento del tapering statunitense, dal rallentamento più o meno manovrato dell'economia cinese, su cui l'intervento del premier Li Keqiang al 12° Congresso del Parlamento ha fatto intendere qualcosa di più: l'obiettivo del PIL per il 2014 è confermato al 7,5% (stesso obiettivo del 2013). Successivamente il ministro delle Finanze Lou Jiwei ha detto che la variabile chiave è l'occupazione (con obiettivo 10 milioni di nuovi posti d lavoro per il 2014), non il livello della crescita e che un'espansione del 7,2%-7,3%, perfettamente in linea con le previsioni CSC di dicembre per il 2014, sarebbe accettabile e corente con l'obiettivo annunciato dal premier in assemblea. La possibilità che per la prima volta dal 1998 la Cina non colga esattamente l'obiettivo di crescita non è così remota e ciò conferma le previsioni del CSC di dicembre per il 2014.

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In Brasile Dilma Rousseff (Partito dei lavoratori) con il 51,6% dei voti è stata confermata presidente nel ballottaggio con Aecio Neves (SocGen) nelle elezioni più equilibrate degli ultimi venti anni. Il paese si è spaccato in due: il nord ancora povero ha votato per Rouseff, il sud ricco, industrializzato e alla ricerca di un passo avanti nei diritti di cittadinanza dopo l’uscita dalla povertà per Neves.
I due candidati portavano infatti due proposte diverse di modello economico: quello interventista-protezionista della Rousseff, basato sull’aumento del reddito individuale, sussidi e crediti al consumo, calo della povertà e riduzione della disuguaglianza, ha prevalso sul liberismo economico di Neves, basato su una minore presenza dello Stato e un maggiore coinvolgimento dei privati nei processi di investimento.
Il secondo mandato della Rousseff (che corrisponde al quarto consecutivo per il suo partito, dopo i due mandati di Lula) vedrà quindi una politica economica in linea con il passato: attenzione all’interno ai programmi socio-economici e protezionismo verso l’estero; lo Stato rimarrà protagonista come regolatore, nelle politiche economiche, nella politica industriale e come finanziatore negli investimenti. A ciò la Rousseff ha aggiunto nel suo programma l'importante novità per una "competitività produttiva per aumentare la produttività del paese".
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Domani gli scozzesi saranno chiamati a rispondere alla domanda “Should Scotland be an independent country?” nel referendum che potrebbe mettere fine all'unione, vigente dal 1707, quando il Regno di Inghilterra e quello di Scozia si convertirono nel Regno Unito di Gran Bretagna (poi divenuto nel 1927 Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord). Sono ammessi a votare i residenti in Scozia di nazionalità britannica, irlandese e di paesi dell'UE e del Commonwealth, di 16 o più anni. Gli ultimi tre sondaggi, degli istituti ICM, Survation e Opinium, hanno presentato un leggero vantaggio per i sostenitori del "Better Together": il 52% degli intervistati ha dichiarato che voterà NO e il 48% YES. Dopo aver per lungo tempo rincorso da lontano, il fronte del SI all'indipendenza aveva messo la testa avanti nei sondaggi del 2-5 settembre. Tuttavia, le promesse di una maggiore autonomia in materia fiscale e di welfare e di una diversa ripartizione della spesa pubblica fatte dal premier britannico Cameron e il rinnovato schieramento di tutto l'establishment britannico, incluso l'ex primo ministro Gordon Brown (scozzese di nascita), a favore del NO hanno riportato avanti i sostenitori degli unionisti. Conta la percezione della propria situazione futura: dai sondaggi risulta in salita la percentuale di coloro che pensano che la loro situazione economica e finanziaria sarà peggiore nel caso di vittoria dei SI, eventualità che darebbe slancio ad altri movimenti indipendentisti esistenti nell'Unione europea (Catalogna in Spagna, Fiandre in Belgio, ecc.) e aprirebbe la questione di una eventuale adesione della Scozia indipendente all'UE. Il presidente dell'esecutivo comunitario Manuel Barroso ha detto che per una Scozia indipendente aderire all'Unione sarebbe "estremamente difficile se non impossibile"; la presa di posizione è sembrata a molti il tentativo di indurre gli scozzesi, ed altri, ad abbandondare la via dell'indipendenza.  
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E' uscito di recente un working paper del FMI, a cura di A. Tiffin, che guarda alla performance sui mercati esteri dell'industria italiana e che ci restituisce un quadro complessivamente positivo di questa fetta di sistema produttivo. Un quadro assolutamente in linea con le analisi svolte in questi anni dal CSC, non da ultimo nel rapporto di giugno di Scenari Industriali.
L'analisi si prefigge di spiegare l'apparente incongruenza che c'è tra l'andamento degli indicatori tradizionali di performance, basati su stime del costo del lavoro (Unit Labor Cost) e di prezzo del prodotto, che vedono l'Italia in svantaggio rispetto ai principali competitor, e le quote di mercato dell'export italiano che, anche negli anni della crisi, hanno retto bene, anche in termini di composizione merceologica. La spiegazione, variamente documentata nel testo, è che non solo le imprese italiane sono riuscite a non ribaltare per intero gli aumenti di costo sui prodotti venduti, facendo anche leva su prezzi in calo degli input importati, rimanendo così competitivi sui prezzi finali, ma anche e soprattutto che esse sono riuscite a migliorare la qualità dei prodotti offerti, svincolandosi da una pura competizione di prezzo, e a posizionarsi su mercati con buone prospettive di crescita.
Nello stesso documento non mancano comunque delle note di preoccupazione. In particolare, si segnala la perdita di quote di export nei settori presidiati da fornitori specializzati, ossia lì dove l'industria italiana ha storicamente uno dei suoi punti di forza. In questo caso, i problemi principali sembrerebbero legati ad una scarsa competitività del sistema paese, piuttosto che a carenze imprenditoriali.
Per concludere, una breve riflessione. Come scritto in precedenza, l'analisi si focalizza esclusivamente su quella parte di imprese che è presente sui mercati esteri con i propri prodotti. Ossia, quasi per definizione, sulle imprese più strutturate e innovative del nostro paese. I grandi vuoti produttivi lasciati dalla crisi, purtroppo, sappiamo essere in larga parte concentrati tra quelle imprese che avevano nel mercato interno il principale sbocco commerciale. Il messaggio che se ne trae è quindi che: le imprese di testa, nonostante in parte azzoppate da un sistema paese inadeguato, sono ancora in larga parte competitive, anzi, vanno complessivamente meglio delle cugine francesi e inglesi e quasi allo stesso passo di quelle tedesche. Dietro di esse, però, non c'è da stare tranquilli...
Qui sotto il link da cui è possibile scaricare il documento originale:
http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp1479.pdf
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E’ appena uscito un libro di Gianfelice Rocca che – con la fondatezza di chi l’industria la fa, e da più di una generazione – attira l’attenzione di tutti su una questione con cui ci si ostina non fare i conti, e che invece è sempre più decisiva per definire l’orizzonte dentro cui si deve inscrivere il futuro industriale del paese. Il punto è semplice, e ruota attorno all’idea che l’Italia abbia eccellenti possibilità di impostare un vero e proprio programma di reindustrializzazione della sua economia a partire da quello che già è. Quando si parla del nostro futuro industriale, emerge spesso l’idea che le cose che sappiamo fare non siano quelle “giuste” per competere nel mondo. E che dovremmo invece cambiare radicalmente direzione, e sforzarci (si sa che la sofferenza paga) di spostare i nostri investimenti verso le famose produzioni “ad alta tecnologia”. Il modello tradizionalmente evocato è ineluttabilmente quello americano; fondato, nelle parole di Rocca, “sull’innovazione straordinaria e sul merito straordinario”. Ma che, come conseguenza ovvia, è anche un modello che dissipa moltissime energie potenziali, perché trascura di coltivare quelle energie invece “ordinarie” che costituiscono il grosso delle risorse di qualunque sistema (e che, come che sia, dovranno pure trovare una collocazione nella società, dal momento che una società non può essere costituita tutta di geni). Quasi mai, di fronte alle grandi storie di successo che vengono da oltreoceano, ci si sofferma a pensare che quello che ci viene raccontato oggi è semplicemente quello che è risultato un caso di successo ex-post, e che nulla sappiamo di tutte le storie che sono invece sfociate in un fallimento. Come dire, non abbiamo una misura di quanto, all’interno di quel modello, quel singolo successo sia costato, in termini non soltanto di disagio sociale, ma anche semplicemente in termini di perdita economica potenziale. Da questo punto di vista vale la pena di riprendere l’osservazione di Rocca secondo cui l’elemento costitutivo del nostro modo di fare impresa è, da sempre, quello del “merito ordinario”: ossia quello che è basato sulla “intelligenza combinatoria” degli imprenditori e dei manager; e che consente innovazioni di tipo incrementale nel continuo, anziché innovazioni radicali una volta ogni tanto. Questo tipo di risorsa trova la sua espressione migliore non nell’alta o altissima tecnologia, ma nel medium tech: dove può meglio esprimersi un’organizzazione produttiva in cui quello che conta sono l’accrescimento costante delle conoscenze e l’interazione continua tra gruppi di persone che si occupano dello sviluppo delle produzioni – “seguendo” le indicazioni che vengono dalla domanda e dai suoi cambiamenti, e non aspettandosi sempre l’evento pathbreaking che ridefisce il mondo sempre e solo dal lato dell’offerta. Ora, il modello industriale orientato al medium tech basato sull’intelligenza combinatoria corrisponde esattamente a quello della Germania (o, se si vuole a quello giapponese): ossia a quelli che sono stati eletti da sempre (e ora più che mai) a benchmark di ogni valutazione in merito all’efficienza manifatturiera. Ma a guardare bene (non occorre neanche sforzarsi troppo) questo è anche il NOSTRO modello: competenze in ambito manifatturiero elevate e diffuse; un territorio intessuto di relazioni fittissime tra i diversi operatori, e tra essi e le istituzioni, ossia un grande capitale sociale; una specializzazione produttiva già ora largamente orientata verso il medium tech; una vocazione “storica” all’innovazione incrementale, che ha mostrato di essere in grado di generare posizioni di primo piano a livello mondiale; un serbatorio di saper fare, nelle mani di una generazione di risorse umane ancora attiva, senza uguali forse nel mondo. Se i modelli di sviluppo fossero delineati a partire dai fatti, e non da ideologie malamente riciclate, la “varietà di capitalismo” italiana dovrebbe essere vista in una prospettiva completamente diversa, e tanto semplice da cogliere quanto capace di sottrarre il funzionamento del sistema dal letto di Procuste dentro cui è costretto da un’idea dell’economia che vorrebbe tutto il mondo clonato in termini di un unico codice genetico.
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Poiché il biennale del Centro Studi Confindustria è ormai alle porte, quest'anno dedicato al tema del capitale umano, ho pensato di condividere con tutti voi questo brano, tratto dal celebre manoscritto "La ricchezza delle nazioni" di Adam Smith.
E' un passo dell'opera magna poco conosciuto, sicuramente molto meno di quello in cui vengono celebrate le virtù della divisione del lavoro e della specializzazione, e però secondo me è di straordinaria attualità. Perché parla di educazione dei cittadini, e dell'importanza del ruolo dello Stato nel promuoverla, insieme alla cultura.
Ovviamente il linguaggio è colorito di espressioni settecentesche, eppure, secondo me, il messaggio che se ne trae è chiaro: in società sempre più iper-specializzate e impersonali, la domanda di educazione e di cultura che viene dalle persone tende a degradarsi e a semplificarsi. Lo Stato deve promuovere quindi la complessità e la ricchezza del pensiero umano, per contrastare questo inerziale impoverimento culturale, che è anche depauperamento di capitale umano.
Dal libro V, Capitolo 1 "On education" (tratto da The Economic Nature of the Firm, a cura di Kroszner e Putterman, p. 43, 3a ed., 2009, Cambridge University Press)
"In the progess of the division of labour, the employment of the far greater part of those who live by labour, that is, of the great body of the people, comes to be confined to a few very simple operations, frequently one or two. But the understandings of the greater part of men are necessarily formed by their ordinary employments. The man whose whole life is spent in performing a few simple operations, of which the effects are, perhaps, always the same, or very nearly the same, has no occasion to exert his understanding or to exercise his invention in finding out expedients for removing difficulties which never occur. He naturally loses, therefore, the habit of such exertion and generally becomes as stupid and ignorant as it is possible for a human creature to become. The torpor of his mind renders him, not only incapable of relishing or bearing a part in any rational conversation, but of conceiving any generous, noble, or tender sentiment, and consenquently of forming any just judgment cocerning many even of the ordinary duties of private life. The uniformity of his stationary life naturally corrupts the courage of his mind and makes him regard with abhorrence the irregular, uncertain, and adventurous life of a soldier.
His dexterity at his own particular trade seems, in this manner, to be acquired at the expense of his intellectual, social, and marital virtues. But in every improved and civilized society this is the state into which the labouring poor, that is, the great body of the people, must necessarily fall, unless government takes some pains to prevent it. (...) The education of common people requires, perhaps, in a civilized and commercial society, the attention of the public more than that of people of some rank or fortune."
Ovviamente il tema è "caldo", spero che accenda la discussione!
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Il 2016 si è aperto con l’accentuarsi della caduta dello stock di prestiti alle imprese italiane: -0,5% a gennaio, dopo il -0,3% a dicembre (dati destagionalizzati dal CSC). Nella prima metà del 2015, invece, la riduzione si era quasi arrestata. Continua a mancare, dunque, un cruciale fattore di sostegno per il recupero dell’attività economica.
I tassi di interesse sulle nuove operazioni, inoltre, sono bruscamente saliti a gennaio (2,0%, da 1,7% a dicembre), dopo una lunga fase di flessione partita a inizio 2014 (quando erano al 3,5%). Sono cresciuti maggiormente quelli pagati dalle grandi imprese (1,6%, da 1,3%), meno quelli per le PMI (2,8%, da 2,7%).
Le sofferenze bancarie sul credito alle imprese sono aumentate a 144 miliardi a gennaio, da 143 a dicembre (pari al 18,6% dei prestiti, da 18,5%). Nonostante le diverse misure varate negli ultimi mesi, il peso delle sofferenze e i rischi che esse pongono restano un forte elemento di freno all’erogazione di nuovo credito.
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Grande affluenza per l'incontro di venerdì prossimo: è stata finora raggiunta quota “48”, tenendo conto sia delle preferenze sulla data sia delle adesioni pervenute dopo l’invio dell’ordine del giorno.
Bando alla privacy...ecco l’elenco dei partecipanti:
Monighini Giuseppe, Alessandria
Romano Davide, Pavia
Gazzaniga Paolo, Assobiomedica
Pucci Sara, Toscana
Manzini Massimo, Firenze
Fedreghini Davide, Brescia
Caltabiano Simona, Catania
Falasconi Laura, ASSICA
Brancia Marco, Assofond
Pisanu Maria, Assofond
Grandi Matteo, Forlì-Cesena
Triola Roberto, Confindustria Digitale
Santini Alessandro, Trento
Marchiodi Mirco, Bolzano
Quaranta Daniela, Roma
Rigo Alessandro, Assografici
Ariazzi Luca, Assocalzaturifici
Pareschi Riccardo, Farmindustria
Pagani Stefano, UCINA
Ciarpella Gloria, Ancona
Franceschini Giacomo, Genova
Minozzi Marzia, Asstel
Matera Andrea, ASSOMET
Marvelli Vittoria, Federchimica
Massaro Raffaella, Padova
Bianchi Eleonora, AIDEPI
Negri Valeria, Assolombarda
Pagani Patrick, Unionzucchero
Raimondi Annamaria, Emilia Romagna
Pignatelli Luca, Torino
Bigagli Barbara, Toscana Nord
Daniele Chersi, Toscana Nord
Vettori Renzo, Toscana Nord
Fascioli Antonella, Roma
Pistacchio Rita, Unione Petrolifera
Pelliccia Gigi, Federalimentare
Caradini Cinzia, Assocarta
Ruberto Valentina, Parma
Poggioli Gian Franco, Bologna
Piccinno Maurizio, ANDIL
Rossi Francesco, Mantova
Federici Olivetta, Novara
Seligardi Alberto, Reggio Emilia
Pigozzi Stefania, UCIMU
Petrucci Cristiana, UNRAE
Federicis Laura, Chieti Pescara
Santini Francesco, Lombardia
Balzani Massio, Forlì-Cesena
Qualora a noi fosse sfuggita qualche mail o a voi di confermare la presenza, fateci sapere (anche per il pranzo)!
Il CSC
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