La flessibilità di bilancio è stata pensata come un incentivo per adottare virtuose riforme strutturali per i paesi che sono riusciti, con alti costi sociali, a ridurre i deficit pubblici sotto la soglia del 3,0%. Così come è stata ideata e applicata ha gravi limiti: la dimensione ridotta, pari al massimo a 0,5 punti di PIL, e la concentrazione in un solo anno, che penalizzano quelle riforme che abbiano costi superiori alla soglia e protratti nel tempo; la rapidità del rientro, che impone la riduzione del maggior deficit in tre anni.
Diventa così elevato il rischio di azzerare l'efficacia delle riforme stesse, a causa degli effetti recessivi delle manovre necessarie a riassorbire la deviazione consentita dalla clausola. Inoltre, le manovre di rientro post-flessibilità peggiorando la performance dell'economia minano il consenso politico: il peggioramento facilmente viene imputato dai cittadini alle riforme stesse, essendo l'uno contemporaneo alle altre; ciò aumenta la probabilità del loro rigetto e rende più instabile il quadro politico. L'instabilità può arrivare al punto di far cadere i governi riformatori e affermare elettoralmente gli oppositori delle riforme, i quali finiscono per abolirle (come è accaduto in Spagna, Portogallo e Irlanda).
Occorre invertire l'orientamento del Consiglio europeo, recuperando lo spirito originario della flessibilità, aumentare l'ammontare massimo della deviazione consentita e prevedere tempi di rientro più lunghi.
Va, inoltre, rivista la metodologia di stima del PIL potenziale, poiché quella adottata dalla Commissione europea comporta disavanzi strutturali molto più elevati rispetto a quanto calcolato da FMI e OCSE, richiedendo, quindi, aggiustamenti di bilancio più consistenti.
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