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Chiarimenti in merito al Protocollo 24 aprile 2020

Roberto Vincenti F98767E6-1156-50B9-4125-66E2005E8089 [email protected] | ‎ | 149 viste

La necessità di scrivere a Governo e sindacati nasce dalla duplice esigenza di rispondere ad alcune improprie interpretazioni ed applicazioni sul territorio sollecitate da alcune parti del sindacato e di chiarire alcuni aspetti anch’essi di assoluta delicatezza.

Uno degli aspetti principali del Protocollo condiviso è rappresentato dalla partecipazione del sindacato all’azione del datore di lavoro nel contrasto al virus.

Fin dal Protocollo del 14 marzo 2020, in premessa si precisava che le imprese adottano il Protocollo di regolamentazione previa consultazione delle rappresentanze sindacali presenti nei luoghi di lavoro. Poiché il Protocollo era stata discusso anche con altre rappresentanze datoriali, si era aggiunto che nelle piccole imprese vengono coinvolte le rappresentanze territoriali, secondo le previsioni degli accordi interconfederali, tenendo conto della specificità di ogni realtà produttiva e delle situazioni territoriali.

A questa distinzione prevista nella premessa come principio generale non aveva, però, fatto riscontro una coerente previsione nella costituzione del comitato previsto dall’articolo 13. Questo articolo, infatti, disciplinava solamente una ipotesi, caratteristica delle imprese industriali, nelle quali la rappresentanza sindacale viene prevista esclusivamente al livello aziendale.

Nel corso degli incontri per l’aggiornamento del Protocollo, le organizzazioni datoriali dei settori artigianato e commercio ed il sindacato hanno avvertito l’esigenza di considerare, esplicitando meglio il contenuto della premessa, per l’ipotesi in cui, per la particolare tipologia di impresa e per il sistema delle relazioni sindacali, non si desse luogo alla costituzione di comitati aziendali.

La congiunzione presente nel testo segnala che i riferimenti alla tipologia di impresa e al sistema delle relazioni sindacali sono da leggersi congiuntamente e identificano quelle imprese e quei settori i cui sistemi contrattuali prevedono relazioni e rappresentanze sindacali su base territoriali.

Dunque, l’assenza del Comitato in azienda, in questa particolare tipologia di imprese, non è figlia di una sorta di inadempimento, ma della precisa volontà della contrattazione interconfederale di questi settori di prediligere il livello territoriale quale ambito tipico delle relazioni sindacali. La particolare tipologia di impresa ed il sistema di relazioni industriali che non prevedono la costituzione del comitato in azienda, giustificano il comitato territoriale previsto dal secondo comma del punto 13 che trova, dunque, applicazione, solamente in queste realtà.

Il secondo comma dell’articolo 13 non contempla, quindi, una fattispecie integrativa destinata ad operare laddove non vi sia stata istituzione del comitato aziendale di cui al primo comma dell’art.13, bensì, disciplina una ipotesi differente, non assimilabile, ad esempio, a quella dell’art. 47, comma 8 del D.lgs. n. 81/2008, che prevede la presenza del RLS territoriale laddove non si proceda alle elezioni in azienda.

La lettera intende precisare, quindi, l’autonomia tra i due commi e la conseguente impossibilità per le associazioni di Confindustria di essere obbligate a dare vita o a partecipare alla costituzione di comitati territoriali aventi le caratteristiche del comma 2.

Si riconferma, inoltre, che il Protocollo non ha natura contrattuale ma costituisce un documento di matrice aziendale, restando in capo al datore di lavoro ogni responsabilità per il non corretto recepimento del Protocollo nazionale.

La tradizionale attribuzione al datore di lavoro della responsabilità degli adempimenti sollecita il coinvolgimento del sindacato - o, in mancanza, dei lavoratori – per le finalità del Protocollo, in una logica collaborativa, di proposta e di condivisione di obiettivi ed interventi, per una attuazione corretta del Protocollo e per la verifica delle regole.

Alcune istanze espresse sul territorio da parte del sindacato pretenderebbero, invece, di utilizzare il Comitato previsto dal secondo comma per finalità che nulla hanno a che vedere con il Protocollo condiviso ed imponendo una presenza sindacale anche alle imprese che ne sono prive. Finalità del tutto estranea al Protocollo e assolutamente da respingere.

Il terzo comma dell’articolo 13 è relativo ad una ipotesi ancora diversa, legata ad esigenze territoriali o settoriali: le parti firmatarie del Protocollo nazionale (anche attraverso le proprie associazioni territoriali) potranno (non si tratta, quindi, di una previsione vincolante, come nel caso del secondo comma) istituire comitati territoriali, sempre per le finalità del Protocollo, anche (trattasi, quindi, di una eventualità) con la partecipazione degli organi di vigilanza territoriali e delle altre Istituzioni coinvolte nelle iniziative di contrasto al COVID19.

Si tratta, quindi, di una ipotesi eventuale, rimessa alle parti firmatarie (anche nelle espressioni territoriali) ed esclusivamente per le finalità del Protocollo. Nella nota si riconferma espressamente che, tra le finalità del Protocollo, non rientrano quelle della vigilanza, del controllo e dalla sanzione, che restano rigorosamente in capo alle Istituzioni preposte.

Così facendo, si ribadisce l’impossibilità per le associazioni di Confindustria di essere coinvolte, loro malgrado, in queste iniziative.    

La lettera trova giustificazione anche nella esigenza di ben intendere alcune disposizioni del Protocollo.

In prima battuta, il tema dell’uso delle mascherine nei luoghi comuni. Innanzitutto, si ricorda che le parti hanno confermato espressamente che le mascherine devono essere utilizzate nei luoghi di lavoro laddove non si riesca a rispettare, nell’attività lavorativa, la distanza minima del metro.

In secondo luogo, si ricorda che proprio il rinvio alla normativa vigente (art. 16, DL. 18/2020) consente di confermare questa posizione delle parti firmatarie, confermata nel Protocollo del 24 aprile.

In ogni caso, si evidenzia che per spazio comune deve intendersi uno di quei locali che rispondono alle logiche dell’indicazione, da ritenersi esemplificativa, contenuta nel punto 7, ossia un luogo (diverso dal luogo di lavoro, per il quale vale la regola del distanziamento o, in alternativa, dell’uso della mascherina) nel quale, data la sua destinazione, è possibile l’incontro di un numero indeterminato di persone, per cui è necessario proteggere se stessi e gli altri utilizzando sempre la mascherina.

Una diversa interpretazione, che imponesse l’applicazione della regola anche nei luoghi di lavoro destinati alla produzione, oltre a contrastare con la legge, priverebbe di senso il principio affermato nel punto appena precedente del Protocollo.

Ai fini dell’interpretazione del corretto concetto di spazio comune può poi farsi riferimento all’obbligo di indossare la mascherina “in tutte le occasioni in cui non sia possibile garantire continuativamente il mantenimento della distanza di sicurezza” (art. 3, comma 2, del DPCM 26 aprile 2020): il riferimento del Protocollo appare assolutamente in linea con questo concetto. L’aumento delle attività produttive aperte e la compresenza di un maggior numero di lavoratori non può che sollecitare una maggior cautela nel prevedere l’uso della mascherina proprio negli spazi comuni, destinati, nonostante il contingentamento delle presenze ed il distanziamento sociale, a rappresentare una potenziale occasione di diffusione del virus (ancor più del luogo di lavoro).

Resta fermo che, anche laddove l’uso della mascherina non fosse previsto dalla legge o dal Protocollo, il suo uso, per quanto facoltativo, non potrebbe che favorire il contrasto alla diffusione del virus.

Ad esempio, anche laddove si garantisse il rispetto del distanziamento sociale e laddove non fosse prescritto l’uso della mascherina chirurgica (ad es., nel caso di mancato distanziamento e di spazi comuni), ben si potrebbe indossare una mascherina cd di comunità. Al di là della sua efficacia (probabilmente inferiore a quella chirurgica), laddove non si rinvenisse in commercio la mascherina chirurgica, l’uso ne resterebbe comunque consigliabile.

L’altro tema, oltremodo delicato, e per il quale Confindustria è intervenuta presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e presso il legislatore, è quello che riguarda il tema delle trasferte.

All’epoca della firma del primo Protocollo (14 marzo 2020), la situazione era molto diversa dall’attuale, e lo spostamento delle persone era letto come un formidabile veicolo di diffusione del virus, tale da provocare l’apertura di altri focolai oltre quelli esistenti o da rinforzare quelli esistenti. Al di là dei provvedimenti che precludevano l’uscita dalle cd zone rosse, nel Protocollo si è condiviso l’obiettivo del legislatore dell’emergenza di ridurre al massimo gli spostamenti.

Già all’epoca, nella circolare di commento, Confindustria ebbe a precisare che la previsione non riguardava gli spostamenti che incidevano sulla attività essenziale dell’impresa, altrimenti configurandosi come una impropria preclusione di attività consentite dal legislatore.

Anche oggi, la logica non è cambiata: il miglioramento delle condizioni dell’epidemia e la riapertura delle attività non può che confermare quella lettura. Anzi, l’ampliamento delle attività deve legittimare una lettura ancor più responsabilmente permissiva.

Nel corso del confronto che ha portato alla integrazione del Protocollo, non è stato possibile modificare alcune parti del documento non più in linea con la lettura estremamente rigorosa dell’epoca, ma è comunque necessario coordinare la lettura del documento con i provvedimenti governativi di riapertura via via emanati, per evitare addirittura di risultare in contrasto con gli stessi.

In particolare, il provvedimento del 26 aprile 2020 amplia le possibilità di spostamento, eliminando ogni forma di comunicazione o autorizzazione da parte delle Prefetture e sostituendole con controlli sul rispetto dei Protocolli di sicurezza.

Apparirebbe contraddittorio ampliare le attività produttive e mantenere limitazioni agli spostamenti che spesso costituiscono la stessa essenza dell’attività o rappresentano una parte integrante o strumentale della filiera produttiva.

Questo anche perché la finalità del Protocollo, riconosciuta nei provvedimenti governativi che l’hanno recepito, è consentire la ripresa produttiva e non certo ostacolare la riapertura disposta dal Governo.

 

8.05.2020 Stirpe-Segretari Generali su protocollo.pdf|Visualizza dettagli

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